Skip to content Skip to sidebar Skip to footer

Carmassi Enrico
La folla. Città ante 1971

Tecnica
tecnica mista su carta

Collocazione
Sede centrale Cassa di Risparmio della Spezia

Proprietà
Cassa di Risparmio della Spezia S.p.A

 

 

La folla di Carmassi

Il bozzetto “La Folla” di Enrico Carmassi è preparatorio all’opera Città compressa, una scultura in terracotta composta da otto blocchi assemblati, in cui la rappresentazione del centro urbano recupera un tema caro al futurismo e segue una parte del rinnovamento artistico che, a partire dal secondo dopoguerra, si dedica alla tecnica dell’assemblaggio sperimentando le potenzialità di nuovi materiali.

Il titolo sembrerebbe ispirarsi al “Marcovaldo” di Italo Calvino: “Ma in questa città verticale, in questa città compressa dove tutti i vuoti tendono a riempirsi e ogni blocco di cemento a compenetrarsi con altri blocchi di cemento, si apre una specie di controcittà…”. Ecco, la controcittà. Nel bozzetto di Carmassi il reticolato che si svolge su l’intera superficie non contiene, non ingabbia e né opprime. Esso sembra piuttosto organizzare la folla, distribuirla nei vari spazi, collocandola in file sovrapposte fino a riempire i vuoti. La città è fatta perlopiù di persone che, seppure si ripetono iconicamente in una bidimensionalità da mosaico bizantino, si uniscono e mischiano fra di loro, sostituendosi ai blocchi di cemento, ai muri, alle costruzioni.

Persone che riducono le distanze e gli spazi, fino a sovrapporsi come in un abbraccio monumentale. Persone che a volte si tengono per mano, mentre in altre si assemblano in gruppi per parlare, per scambiarsi opinioni, per discutere e condividere idee. Ci piace pensare che la “controcittà” cui si è ispirato l’artista non sia altro che una città composta da cittadini propensi a collaborare per il bene comune, coinvolti dalla stessa urgenza, dallo stesso senso di appartenenza alla comunità in cui vivono, consapevoli di poter plasmare e influenzare la società attraverso la partecipazione, e in cui prevalgano sullo stesso piano i diritti e le responsabilità. Un luogo di convergenza tra etica e politica, tra essere uomo buono e buon cittadino.

Aurelio Amendola
Alberto Burri, Morra, La combustione – 1976

Tecnica: stampa da diapositiva

Collocazione:
Castello di Rivoli Museo d´Arte Contemporanea, Torino

Proprietà:
Fondazione CRT

Il gesto di Burri

Come si misura il talento di un artista? Forse dalla potenza di un’opera d’arte, dalla capacità che essa ha di comunicare e dalla sapienza del suo racconto. In un’opera il soggetto, la tecnica e la poetica non sono mai separabili e ognuno è funzionale all’altro. La forma diventa contenuto.

Dopo la seconda guerra mondiale, il vuoto che assale l’uomo moderno e la convinzione della sua solitudine di fronte alla morte influiscono radicalmente sul linguaggio dell’arte. Cambiano gli strumenti e i modi: l’artista sviluppa attraverso il segno o il gesto un nuovo rapporto con l’opera d’arte, sperimentando materiali originali spesso ripresi dalla quotidianità. L’opera è un’entità dotata di una vita organica propria, da vivere a sua volta nel profondo.

Per Alberto Burri (1915-1995) esistere coincide con il fare artistico e viceversa: nei Sacchi, nelle Plastiche e nelle Combustioni, il gesto fa parte dell’opera e la rende viva; il gesto evidenzia il carattere sacro e assoluto dell’oggetto e ne esalta il suo potenziale comunicativo. Dopo la guerra mutano i codici espressivi. Utilizzando il fuoco, attraverso la combustione, l’artista attiva un’arte al di fuori delle nozioni tradizionali di forma, spazio e estetica. La fiamma crea forti chiaroscuri, va dal nero intenso dove la materia è stata maggiormente bruciata, al chiarore del vuoto lasciato dalla fiamma; sulla pellicola trasparente, essa imprime buchi, grinze e strappi, sono lacerazioni violente, profonde e potenti come lesioni. Sono le ferite dei soldati che riaffiorano dai ricordi della sua prigionia nel campo di concentramento in Texas. Burri ha riguardo per quelle ferite e sviluppa un’azione riparatrice e cura, al fine di raggiungere una nuova bellezza della forma. Ecco, nel gesto dell’artista sta il suo talento.

 

Mattiacci Eliseo
Cultura mummificata, 1972

Tecnica: n. 134 calchi di libri in alluminio

Collocazione:
Fondazione CRT

Proprietà:
Castello di Rivoli Museo d´Arte Contemporanea, Torino

Cultura mummificata

Il disordine è solo apparente. I libri collocati a terra alcuni in bilico, altri appoggiati gli uni agli altri, si diramano e si distendono in modo regolare partendo da un nucleo centrale più alto. Volumi senza lettere, senza titolo, per lo più chiusi, serrati e immobili, abbandonati sul pavimento senza contenuti, né informazioni. Mummificati appunto. Ma non sono i libri i forzieri della cultura? Non sono loro i preziosi custodi della sapienza? Qui sono statici, pezzi di alluminio non consultabili, senza indizi di scrittura, privi della curiosa attrattività della conoscenza.

Esposta nel 1972, in una della più controverse Biennali di Venezia, Cultura Mummificata di Eliseo Mattiacci appartiene ad un gruppo di opere in cui l’artista analizza i codici culturali come base di partenza dell’apprendere. La funzione primaria dei libri relativa alla trasmissione del sapere e della memoria ha smesso di funzionare: è ferma in un assembramento che sa di abbandono, in cui evidente è la denuncia della precarietà della trasmissione della cultura. Perché? Quando la fruizione diventa unilaterale e non viene vissuta come esperienza comune, non può esserci educazione e apprendimento, poiché assente è il dialogo vitale della comunità che la riceve. Mattiacci, riuscendo a mantenere uno sguardo chiaro ed evocativo, costruisce un’immagine concettuale che riflette sulla cultura come convenzione, sul rischio di come questa possa generare, se non dialoga con la società, chiusura e staticità del sapere. Insegnamento e apprendimento devono essere animati e sostenuti da tutta la comunità, evitando così il rischio di produrre una cultura atrofizzata non più trasmissibile. La collettività, quindi, nella sua complessità e con i suoi bisogni; in assenza di essa, i libri saranno muti, senza parole, pezzi di alluminio sparsi per terra, inanimati e non più leggibili.

Nomellini Plinio
Piazza Caricamento a Genova, 1891

olio su tela
cm 120 x 160

collocazione:
Palazzetto medievale Fondazione CR di Tortona
proprietà:
Fondazione CR di Tortona

 

Piazza Caricamento a Genova

Sono le prime ore del mattino, e la grande piazza del porto di Genova è già in fermento. L’atmosfera è quella della febbrile attività e del continuo movimento dei lavori portuali. Al centro dell’immagine si stagliano decise le figure di un “camallo” dal tipico copricapo, con una fune stretta nella mano, e un carrettiere riconoscibile dal caratteristico abbigliamento della giacca di fustagno, pantaloni negli stivaloni e fazzoletto al collo. A bilanciare la composizione, di poco arretrati, sono a sinistra le immagini di uno spazzino e di un uomo con la cesta, intenti nel loro lavoro e, dall’altro, in un sottile linguaggio di equilibri e opposizioni, due borghesi mentre leggono il giornale.

Quando, nel 1890, Plinio Nomellini si trasferisce a Genova è già formato alla nuova maniera divisionista ed è molto interessato ai soggetti socialmente impegnati. Da attento osservatore della realtà urbana è subito attratto dalle sinergie frenetiche delle “sue rive e del suo porto” della città ligure, di cui ne sono testimonianza i suoi taccuini ricchi di studi di operai, scaricatori e marinai.

I due giovani dal fisico solido e portentoso incedono nella scena con passo sicuro e consapevole, mostrando la fierezza di chi il lavoro lo conosce bene, perché lo ha sperimentato sulle proprie spalle e nelle proprie mani. Tra loro si avverte una tacita intesa. Tutto attorno nella piazza è vitale attività, in un continuo lavorio di scambi, di trasporto, di caricamento e scarico di merci, movimento di carri, muli e carrettieri, ritratti con pennellate di colore piccole, divise e veloci, frutto di una materia cromatica luminosa e avvolgente.

La piazza diventa così il luogo dove le persone possono scambiarsi conoscenze, ruoli, esperienze e dove possono sperimentare nuove soluzioni e favorire nuovi intrecci e trasformazioni. Il lavoro diventa condivisione, scambio e collaborazione. È la consapevolezza di poter contribuire allo sviluppo e al progresso della comunità

Aprile 2021

Licini Osvaldo
Amalassunta, ca. 1940 – ca. 1950

olio su tela
cm 19 x 20

collocazione:
Museo Palazzo Ricci, Macerata
proprietà:
Fondazione Carima

Amalassunta

Sembra fluttuare nel fondo di un cielo rosso acceso, pochi tratti ocra appena accennati, un volto appeso a un esile tronco smembrato i cui seni giacciono separati su un piano nero. (more…)

Marzo 2023

Michelangelo Pistoletto
La Venere degli stracci, 1967

cemento ricoperto di mica, stracci
cm 150 x 280 x 100

collocazione:
Castello di Rivoli Museo d´Arte Contemporanea – Galleria Civica d´Arte Moderna e Contemporanea di Torino
proprietà:
Fondazione CRT

La Venere degli stracci

Venere, armonia della bellezza. Considerata da sempre l’ideale della grazia e della bellezza femminile, Venere è anche la dea simbolo della forza dell’eros, capace di infondere il desiderio in ogni creatura e di catturare, incantandolo, l’osservatore. Ma qui la dea non si mostra. Anzi, volta le spalle e nega la sua bellezza; si nasconde allo sguardo e sceglie di immergersi nel cumulo di stracci e di abiti addossati alla parete.

Protagonista dell’Arte Povera, orientamento artistico degli anni ’60 che inneggia alla libertà, alla creazione svincolata da ogni imposizione in cui non è importante la forma ma il contenuto, Michelangelo Pistoletto irrompe nel panorama dell’arte italiana con La Venere degli stracci, una delle sue più note e irriverenti installazioni.

L’arte di Pistoletto è caratterizzata da una sperimentazione incessante che supera tecnica e stile a favore di un intervento che punta all’integrazione dell’osservatore con lo spazio, con il tempo e con la realtà dell’opera: gli oggetti presenti, infatti, non assurgono al ruolo di sculture – come dice lui stesso “non rappresentano, sono”- ma diventano protagonisti di un evento dal sapore teatrale in cui fondamentale è il coinvolgimento dello spettatore.

La pedissequa riproduzione della Venere con mela dell’artista neoclassico Bertel Thorvaldsen del 1805, esalta il confronto stridente tra la rappresentazione classica e ordinata di bellezza e il mucchio disordinato di oggetti non di valore, stracci e abiti appunto, con la chiara volontà di avvicinare la tradizione classica dell’arte al contesto sociale contemporaneo. L’utilizzo di materiali poveri non canonici, ripresi dagli utensili di uso quotidiano indica il disinteresse a realizzare opere tradizionali in favore di un’attività artistica che sia al servizio di un linguaggio comune, comprensibile a tutti. Ogni straccio e abito rimanda a una persona, al vissuto di qualcuno, alla concretezza della realtà in una correlazione tra quotidiano e apparenza che coinvolge nel medesimo istante ambiente e pubblico.

D’altra parte è nella natura primaria di un’istallazione fare dello spettatore il principale fruitore: l’autenticità degli oggetti e dei materiali utilizzati, infatti, ne esaltano il dialogo immaginario. Venere perde la autorevole frontalità e il prestigio della fattura (è un calco di statua in cemento simile a quelle di arredo dei giardini) e invita l’osservatore a concentrarsi sullo stridente connubio, fra l’ordine e il caos, tra il bianco e il colorato, tra la classicità e la modernità. Così, la bellezza ideale si contrappone alla concretezza del quotidiano in un percorso che vede lo straccio rinascere con la Venere, per essere forma e colore fino a farsi opera. La “povertà del quotidiano”, dunque, diventa arte, un’esperienza artistica a disposizione di tutti. Non è forse questa la vera bellezza?

Febbraio 2023

Varotari Alessandro Detto Padovanino
Europa e il toro, 1638 – 1640

olio su tela
cm 96 x 130

collocazione:
Palazzo Confalonieri – Centro Congressi Cariplo, Milano
proprietà:
Fondazione Cariplo

Europa e il Toro di Alessandro Varotari

Europa in principio era un mito. Il mito narra di una delle più celebri vicende amorose di Giove. Il re degli dei, invaghitosi della bella e giovane Europa, figlia del re di Tiro (Fenice o Agenore), si trasforma in un toro e, ingannando la fanciulla, la fa salire sul suo dorso per rapirla e portarla fino a Creta, dove, abbandonato l’aspetto animale, la seduce; dalla loro unione nascono tre figli, tra cui Minosse, il leggendario re dell’isola.

È Ovidio a raccontarci di Europa (Metamorfosi, libro II, vv. 835-875): Giove vista la giovane e prosperosa fanciulla, prese le sembianze del bellissimo e giovane toro, la raggiunge e si sdraia accanto a lei. Europa non ha paura e, anzi, lo adorna e gli cinge il capo di una corona di fiori e di un drappo celeste. “Nessuna minaccia in fronte, lo sguardo non fa paura, il muso è in pace. Lo contempla la figlia di Agenore, come è bello, e non minaccia battaglie; ma, per quanto mite, ha paura a toccarlo dapprima, poi gli si accosta e porge fiori davanti al candido muso”. In disparte rimangono le compagne che forse intimorite provano titubanti a offrire una corona di fiori. A sancire che si tratti di una scena amorosa è Cupido che munito di faretra e frecce anticipa l’epilogo della vicenda.

Dal mito poi sembra derivare l’assegnazione del continente. “Una parte del mondo/porterà il tuo nome” (Orazio, Odi III 27, vv. 75-76).Il nostro continente quindi avrebbe preso il nome da quella fanciulla, anche se tale opinione diffusa fra gli antichi, non riscontra pareri unanimi.

L’autore del dipinto che illustra l’incontro tra Europa e il toro è Alessandro Varotari, detto il Padovanino, che sceglie di rappresentare la parte del mito antecedente al Ratto. Il pittore interpreta in maniera personale il classicismo dei modelli veneti del Cinquecento: le figure femminili nitide e prosperose sono descritte da un cromatismo vivace e intenso, con particolare cura dei monili e del panneggio; esse occupano prepotentemente la scena in un’atmosfera quasi sospesa, priva di sentimenti e drammaticità.

Gennaio 2023

Carli Tullio, 1939
Città futurista
olio su tela
cm 44 x 63

collocazione:
Palazzo Cassa di Risparmio, Trieste
proprietà:
Fondazione CR di Trieste

Città Futurista

Tullio Crali racconta di essersi avvicinato al futurismo all’età di quindici anni quando vendeva i testi scolastici per comperare i libri di Marinetti, di Boccioni e i Manifesti del Futurismo. Nel 1928 dopo essersi trasferito con la famiglia a Gorizia, frequentò il campo di aviazione e rimase affascinato dalla traversata dell’Atlantico di Charles Augustus Lindbergh. Fu allora che la passione per il volo entrò nella sua pittura e la determinò strutturalmente. Il giovane Crali scelse così di abbandonare definitivamente i retaggi surrealisti e si dedicò all’aeropittura, affascinato e consapevole del cambiamento avvenuto nella mostra di aeropittura a cura dei futuristi che si tenne nel febbraio 1931 a Roma. Ed è sulla scorta dei suoi studi sui temi futuristi e sui disegni dell’architetto visionario Antonio Sant’Elia che Crali elaborò un suo personale linguaggio architettonico futurista: la città come luogo privilegiato della velocità, del movimento, la forza prorompente della modernità; forme stilizzate di edifici simili all’edilizia industriale. “Noi dobbiamo inventare e rifabbricare la città futurista simile a un immenso cantiere tumultuante, agile, mobile, dinamico in ogni sua parte, e la casa futurista simile a una macchina gigantesca” (Manifesto di Sant’Elia 1914).

Nelle opere di Crali le città futuriste assumono contorni visionari e verticali e risultano collegate dalle comunicazioni aeree dei veicoli aerodinamici, dal dominio tecnologico dell’uomo su cielo, terra e mare, e l’edificio si fa città e infrastruttura, fabbrica e centrale energetica. La città di Crali si svolge davanti ai nostri occhi come se la stessimo osservando in una quinta teatrale: curve e rette si alternano agli archi che nei diversi piani e nelle differenti profondità ci portano ad alzare lo sguardo e a notare l’areostato che sorvola tra le cime dei palazzi sullo sfondo di cieli e di luci. L’opera condensa tutta la teoria futurista di città, dai treni sbuffanti ad aerei che sorvegliano le metropoli, alle incurvature anti-vento (ideate in alcuni disegni dallo stesso Crali) e ai grattacieli avveniristici. È la città ultramoderna, visionaria e titanica, con i rimandi all’architettura di Sant’Elia e con uno sguardo ai paesaggi cubisti di Delaunay.

L’opera di Crali è priva di presenza umana, pullula di rumori, di edifici svettanti e di macchine roboanti, ma non ci sono le persone. Ma se le città sono tali perché rappresentano l’identità di chi li abita, ci piace credere che la città futurista di Crali, in assenza di umanità,  sia in verità  il progetto per una città ideale, senza incoerenze sociali, né divisioni strutturali: una città finalmente inclusiva e vivibile da tutti, una città in attesa di essere popolata da una sana comunità.

Dicembre 2022

Gianni Berengo Gardin, 1984
Trento, campo nomadi
stampa ai sali d’argento b/n
cm 25×37

collocazione:
Castello di Rivoli Museo d´Arte Contemporanea – Galleria Civica d´Arte Moderna e Contemporanea di Torino
proprietà:
Fondazione CRT

 

Trento, campo nomadi

Il mio lavoro non è assolutamente artistico e non ci tengo a passare per un artista. L’impegno stesso del fotografo non dovrebbe essere artistico, ma sociale e civile”. Gianni Berengo Gardin di origini veneziane, ma milanese di adozione, definisce così il ruolo del fotografo. A conferma delle sue parole sono il suo lavoro e la scelta di essere innanzitutto osservatore puntuale della realtà, della sua fisionomia e delle sue trasformazioni. La sua macchina fotografica scruta infatti il mondo degli emarginati, dei lavoratori, degli zingari, del sud d’Italia, dei malati di mente e la condizione della donna. Inizia la sua carriera di fotografo nel 1954, scegliendo di lavorare da allora esclusivamente con la pellicola, e sempre in bianco e nero. Sui nomadi ha realizzato diversi reportage vivendo anche per diversi giorni nei campi, credendo con passione nella fotografia come documento e come testimone di realtà sociali.

Nella foto, lo specchio appoggiato alla rete divisoria riflette l’immagine per intero del violinista e ci conduce nel resto del campo nomade con altre baracche e con i suoi occupanti. È un campo chiuso, delimitato, e anche il profilo dei monti all’orizzonte ne sottolinea il confine. Lo zingaro violinista di profilo in primo piano sembra avere una personalità a sé rispetto alla sua stessa immagine riflessa: più cupo è lo sguardo, concentrato nella malinconia della sua musica, chiuso nel suo essere; la proiezione del suo riflesso nello specchio sembra invece affermare la consapevolezza e l’orgoglio della sua condizione; egli sembra volere, almeno con la musica, oltrepassare il campo e essere considerato semplicemente per quello che è, un uomo. Una ragazza appoggiata alla rete con gli occhi in tralice si abbandona alle note e ai suoi pensieri. Poco oltre due bambini seduti sembrano attendere il loro turno per potersi esibire e provare anche loro a “fuggire” nello specchio. La maestria del gioco a contrasto dei bianchi e dei neri esalta l’armonia compositiva e il significato dell’immagine e ci restituisce, sulle note del violino zigano, quella “disperata allegria” evocata più volte da Berengo Gardin nei suoi reportage sui campi nomadi.

Novembre 2022

Renato Guttuso, 1950-1974
Donna e banco di frutta
olio su tela
cm 180 x 100

collocazione:
Palazzo del Monte di Pietà, Padova
proprietà:
Fondazione Cariparo

Donna e banco di frutta

Il mercato al Sud. Una donna schiac­ciata dai banchi di frutta con il sac­chetto della spesa cerca di farsi strada in uno spazio esiguo. In una prospettiva ribaltata che dispone le figure in un solo piano frontale anziché in profondità e di scorcio, la donna con il capo chino quasi si confonde tra le cassette della mer­ce esposta, anzi sembra fondersi con esse. Diventa parte integrante di quei colori squillanti in un rea­lismo accurato e intenso.

Donna e banco di frutta” è uno degli studi preparatori dell’opera considerata il capolavoro di Renato Guttuso, “La Vucciria” del 1974, un dipinto enorme di 3 metri quadri realizza­to da Guttuso nel pieno della sua maturità artistica. La donna dello studio preparatorio, che sembra incedere nel quadro dallo spazio esterno, la ritroviamo nella stes­sa postura nel dipinto definitivo davanti al banco dei formaggi. Medesima è la materia cromatica e il tratto incisivo espressionista; medesimo il realismo vivo che ri­manda al senso, alle immagini e ai sapori della vita quotidiana in un tipico mercato siciliano.

Principa­le portavoce del gruppo milanese “Corrente”, movimento fondato a Milano nel 1938 da una generazio­ne di artisti che rigetta il regime fa­scista di Mussolini, Renato Guttuso è l’artista più eticamente impegna­to di quegli anni. Nato a Bagheria, in provincia di Palermo, le sue opere ci raccontano del Sud, del­la Sicilia tra verità e attualità, con i suoi spaccati di vita quotidiana. Guttuso dipinge la realtà di cui è a conoscenza, quella che ha vissuto e patito, gli aspetti più difficili, più crudi e violenti della sua terra di origine. Nelle sue opere fortemen­te espressioniste e intrise di vivido realismo sono evidenti l’impegno e la denuncia sociale: si tratta spesso di una società relegata ai margini, contraddittoria e rassegnata, con le sue ingiustizie sociali; una co­munità di contadini, fruttivendoli, pescivendoli e braccianti sfruttati e poveri.

Il Sud, dunque, inteso non solo come posizione geografica, ma anche come condizione sociale, fatta di diseguaglianze e fratture, iniquità e sofferenze, isolamento e ribellioni. Una condizione quindi anche emotiva. Un capitale umano sfruttato e sottomesso, a tratti ras­segnato e troppe volte costretto a lasciare i propri luoghi per lavorare altrove. Del resto, ci si può sentire al Sud in tutte le parti del mondo.

ottobre 2022

Giacomelli Mario – 1925/ 2000
La buona terra
1974 – 1976
stampa ai sali d´argento in b/n
cm 29 x 39

collocazione:
Torino (TO) – Castello di Rivoli Museo d´Arte Contemporanea – Galleria Civica d´Arte Moderna e Contemporanea di Torino
proprietà:
Fondazione Cassa di Risparmio di Torino

La buona terra – Mario Giacomelli

Ha interrotto il suo lavoro e con il rastrello poggiato sulla spalla indica verso l’osservatore e ne cattura l’attenzione. La sua immagine sfocata contrasta con la resa esatta del terreno: il bambino è al centro della scena e con l’arnese completa una croce fungendo così da cesura tra lo spazio esterno e il resto della composizione. Sopra la sua testa lo sguardo corre all’infilata prospettica dei contadini intenti a lavorare. Una bimba guarda curiosa e sembra chiedersi il perché di quello scatto.

«Sento l’uomo più nella natura che nel suo ambiente usuale di vita -spiega in un’intervista Mario Giacomelli-; questa natura non è solo composizione o materia ma invece è la vita dell’uomo con tutti i suoi martìri, con le stesse rughe, con gli stessi calli che ha l’uomo che la lavora, che spera in questa terra». “La buona terra” è un lavoro che l’artista dedica ai contadini e alla loro vita destinata alla natura. Un mondo che a noi sembra lontano e idilliaco, e che Giacomelli riproduce nelle sue foto fissando lo scoramento che prova nel vedere l’allontanamento dell’uomo dalla sua naturale condizione di vita legata alla terra.

Riusciranno i contadini a resistere alla diaspora dell’emigrazione, al dolore umano per una condizione senza scampo e senza risoluzione? Riusciranno a sopravvivere al problema della fame? E, andando via dalla loro terra, approdando nella città con l’inevitabile doppia umiliazione, sia economica che esistenziale, siamo sicuri che riusciranno a migliorare la propria condizione di vita? Giacomelli esalta chi per ora continua a lavorarla la terra, chi ha deciso di rimanere ancorato alle proprie radici: l’immagine è idilliaca, spirituale, in una luce mistica e metafisica assieme, i personaggi sono sospesi in un’immobilità perenne, rispettano la loro origine e ci restituiscono un senso immenso di umanità.

settembre 2022

Umberto Boccioni
Casa in costruzione
1907 – 1909
matita rialzata a penna su carta
dimensioni: 1492 x 400

collocazione:
Tortona (AL) – Palazzetto medievale Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona
proprietà:
Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona

 

Casa in costruzione – Umberto Boccioni

La città è il simbolo del progresso, espressione di dinamismo e di rinascita. La città incarna la bellezza della vita moderna, lo sviluppo urbano dei territori, la velocità e il cambiamento. Con la città si costruisce il nuovo e quindi il futuro. Umberto Boccioni è autore del manifesto tecnico della pittura futurista e, del movimento futurista, ne è un fervente sostenitore. Quando si trasferisce a Milano, nel 1907, la città è in pieno fermento urbanistico. Dal suo balcone osserva un paesaggio periferico, uno spazio ancora ibrido tra urbanizzazione e campagna, dove edifici industriali, officine e costruzioni civili si vanno progressivamente sostituendo ai terreni incolti di un’attività agricola ormai morente.

Tutti i giorni ha sotto gli occhi andirivieni di operai, centinaia di sterratori e carrettieri che, assieme ai cavalli da traino che portano via i materiali appartenenti al passato e ne trasportano di nuovi, costituiscono gli elementi febbrili e entusiasmanti del movimento futurista, a cui Boccioni sarà profondamente legato. Di quei giorni sono molte le annotazioni, molti gli studi e i disegni. “Casa in costruzione” è tra questi, e ben illustra le sperimentazioni dell’artista sul tema della città: al di là della staccionata si staglia lo scheletro di un palazzo in costruzione, circondato dal reticolo dei ponteggi; le finestre non finite dalle nere aperture sottolineano il lavoro in divenire; sulla strada, il carro trainato da un cavallo a testa bassa, seguito da un esile figura maschile, avanza a fatica. L’immagine, apparentemente statica, mostra nella rappresentazione dello stabile uno slancio verso l’alto che sembra quasi piegarsi nei diversi punti di fuga.

Il disegno, fortemente pittorico, è composto da linee curve e irregolari, dal tratto nervoso e spezzato (in omaggio alla pittura divisionista) reso più robusto, grazie all’uso della penna, nella strada e nello stabile, più leggero e rarefatto nel cavallo e nell’uomo. Principale interprete del progresso e del dinamismo delle città, Boccioni al tema della periferia e dei cantieri dedica molti lavori, anche prima dell’adesione al Futurismo. All’artista interessa il divenire, il dinamismo della costruzione in fieri, il nuovo. Il futuro, con il suo fascino, è ormai alle porte.

Agosto 2022

Pannaggi Ivo – 1901/ 1981
Treno in corsa
1922
olio su tela
cm 100 x 120

collocazione:
Macerata (MC) – Museo Palazzo Ricci
proprietà:
Fondazione Cassa di Risparmio della Provincia di Macerata

Treno in corsa di Ivo Pannaggi

Ivo Pannaggi ha solo 21 anni quando termina il dipinto Treno in corsa. Si tratta di un’opera futurista, un esempio di arte meccanica, di avanguardia. Con la stessa definizione l’artista intitolò “Il Manifesto dell’Arte Meccanica Futurista” che firmò assieme a Vinicio Palladini, proprio in quell’anno, nel 1922, con la supervisione di Filippo Tommaso Marinetti:

«Oggi è la macchina che distingue la nostra epoca […] Senso meccanico netto deciso che è l’atmosfera della nostra sensibilità. […] Sentiamo meccanicamente e ci sentiamo costruiti in acciaio, anche noi macchine, noi meccanizzati dall’atmosfera. […] Ed è questa la nuova necessità, ed è il principio della nuova estetica».

Ed è la macchina ad irrompere e a sfrecciare nello spazio del dipinto con la svettante locomotiva. Il suo faro buca la superficie, amplifica la velocità del treno, mentre le linee, rette e circolari, i tratti e i piani si inclinano, si spezzano e si aprono al passaggio della macchina. Missili di forza, pura energia, mobilità e dinamismo anche cromatici. Tutto serve a scomporre lo spazio per dare via libera alla velocità, all’andamento irruento della macchina di acciaio fino quasi a sentirne il meccanico rumore; tutto serve a rompere l’immobilità delle cose: è il riscatto delle realtà sociali attraverso la modernità ela macchina.

L’attivismo globale (e quindi anche sociale) del Futurismo ha cercato costantemente il superamento dei valori puramente convenzionali dell’opera d’arte. Nel Treno in corsa si legge la rottura operata dai primi futuristi Balla e Boccioni. La carica avanguardistica e di rivoluzione che Pannaggi eredita parte proprio dall’importanza della macchina come simbolo del progresso e del riscatto. La nuova estetica meccanica ideata dall’artista punta infatti alla profonda dialettica sociale che essa sottende: da una parte lo sfruttamento capitalistico, dall’altra, in antitesi, l’alternativa rivoluzionaria della macchina che emancipa il proletario. Nella rivoluzione meccanica della macchina di acciaio, nella modernità della tecnologia, dunque, vi è anche la possibilità di liberazione e di riscatto dell’uomo dal peso delle ingiustizie della società e del mondo.

Luglio 2022

Bentivoglio Scarpa Natalino detto Cagnaccio di San Pietro – 1897/ 1946
L’alzana
1926
olio su tela
cm 200 x 173

collocazione:
Venezia (VE) – Sede della Fondazione di Venezia
proprietà:
Fondazione di Venezia

L’Alzana del Cagnaccio

La luce è quella di un sogno. Nitida, quasi metallica e iperreale. Lo spazio è una banchina a ridosso del mare in una prospettiva innaturale. La scena è immobile, incantata, immersa in una magica sospensione, ma il lavoro di traino dei due giovani è tensione muscolare, è fatica al limite della sopportazione, non è illusione. Lo strumento di lavoro è l’alzana, la fune che serve a trainare il barcone galleggiante, un lavoro più da animali da tiro che da uomini, un lavoro svolto solo da chi è al limite della miseria. Il verismo esasperato della resa attenta dei muscoli rigonfi, dei tendini tesi, delle vene affioranti si fonde in uno scenario metafisico di innaturale staticità.

Presentata nel 1926 alla XV Esposizione Internazionale d’Arte della città di Venezia, L’Alzana si qualifica come un punto cardine nel cammino artistico di Cagnaccio, che proprio nella sua produzione di questi anni affronta più volte soggetti di ispirazione sociale. Cagnaccio di San Pietro nasce a Desenzano nel 1897. Studia all’Accademia di Venezia con Ettore Tito, pittore accademico, ma presto si avvicina alle avanguardie partecipando, negli anni Dieci, alle mostre di Ca’ Pesaro, con Gino Rossi, Tullio Garbari e Felice Casorati.

L’esatta durezza del segno, il colore dalle gelide fluorescenze, il verismo dei tratti fisionomici affondano le loro radici nel linearismo del Quattrocento veneto; mentre la resa oggettiva della realtà, che corrisponde a una realtà intima e morale, mostra affinità elettive con la corrente pittorica di quegli anni, il “Realismo magico”. Con i due giovani Cagnaccio ci racconta di uno sforzo che diventa vano poiché il peso da portare è troppo grande, il barcone infatti rimane immobile. Il lavoro preso per disperazione si incastra nel giro delle fatiche e delle illusioni: l’artista sembra rimandare alla metafora della vita in cui l’affanno e la fatica non sono trasferibili e ,nonostante l’impegno, si rischia di rimanere lì, fermi nell’inutile sforzo.

Ma sono giovani. Per loro c’è sempre un’altra strada da percorrere per progredire, per cambiare. I giovani riescono a sognare, a immaginare il cambiamento qualsiasi sia la loro condizione; riescono ad accettare le proprie debolezze, l’impegno non ripagato, gli sforzi vanificati. I giovani sono capaci di guardare avanti e ripartire.