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Pietro Annigoni
Solitudine II
1968

tempera grassa su tela

collocazione: Villa Bardini, Museo Annigoni, Firenze
proprietà: Fondazione CR Firenze

 

 

Solitudine II di Pietro Annigoni

Il dipinto fa parte della trilogia delle “Solitudini dipinte da Pietro Annigoni tra il 1963 e il 1973. Questa è del 1968. La trilogia è pensata e realizzata dall’artista all’apice della sua carriera e interpreta, negli anni centrali del Novecento, un’epoca di grandi contraddizioni per la vita politica e sociale internazionale, tra le tensioni dovute alla Guerra fredda,  le crisi delle società occidentali rispetto ai modelli dello sviluppo economico e le contestazioni giovanili. Sembra che il mondo sia destinato a un tracollo dei valori tradizionali, sull’orlo di un nuovo conflitto, stavolta nucleare.

Solitudine II rappresenta, da questo punto di vista, il momento di non ritorno in cui l’umanità, simboleggiata dalle figure che si vedono nella composizione, tenta una fuga disperata dal peggior incubo: la deflagrazione atomica che si irradia nel cielo sullo sfondo, destinata a cambiare per sempre le condizioni ambientali del pianeta. Un incubo che affligge anche il nostro tempo, così com’è nel pieno della crisi climatica e dell’emergenza ambientale. Una situazione che sfugge al controllo, visti anche i disastrosi eventi atmosferici, che sembra arrivata a un punto di non ritorno, di cui, forse, non se ne parla abbastanza.

Nel dipinto, lo scenario è di terrificante desertificazione. Un forte bagliore sullo sfondo di un paesaggio vuoto e desolato. Alcuni ruderi e un uomo che fugge. Altre figure ammantate in primo piano si dileguano impaurite e soggiogate da qualcosa più grande di loro. Il rapporto e il dialogo tra uomo e natura sta per concludersi. Per sempre. La realtà rappresentata sembra non essere più naturale, priva di connotazioni di spazio e di tempo. A enfatizzare una situazione drammatica sono i forti contrasti di chiaro e di scuro, in una luce abbagliante. Evidente è lo smarrimento e la consapevolezza che si tratti degli effetti disastrosi di una natura lungamente aggredita e vessata.

Per mettere riparo a ciò che l’uomo ha innescato con le sue azioni, occorre un cambiamento culturale forte e determinato. Un vero e proprio mutamento di modello per tradurre in realtà ciò su cui tutti (o quasi) sono d’accordo: agire subito per preservare e salvare il pianeta con azioni che con fermezza arrestino, o quanto meno rallentino, l’accelerazione delle conseguenze del cambiamento climatico. Ma siamo ancora in tempo?

Briggs Jonny
Comfort Object
2012 (ripresa) – 2012-2015 (stampa)

stampa a sviluppo cromogeno

collocazione: Fondazione Modena Arti Visive ( Modena)
proprietà: Fondazione di Modena

 

Comfort Object di Jonny Briggs

L’immagine disorienta. Ritagli di foto scomposti e sovrapposti tra loro. Due teste, gambe incrociate disgiunte dal corpo, mentre due braccia accolgono, cingendolo, il volto di un uomo.

La cura dell’altro non ha forme stabilite. Esiste anche se i canoni sono rovesciati. L’immagine sembra infatti ispirarsi all’iconografia della Pietà, ma non è la madre che accoglie il figlio, è il figlio che tiene e stringe nel proprio grembo il volto del padre. Stessa solennità e intima partecipazione. La forma è inusuale, la confusione delle forme è voluta. L’opera racconta dell’amore, della premura e dell’impegno verso l’altro.

Classe 1985, Jonny Briggs è tra le più interessanti figure emergenti del panorama artistico britannico. La sua ricerca fotografica si è arricchita nel tempo di sculture, oggetti e di interventi in tessuto e video. Briggs ha mantenuto un forte legame con il suo luogo d’origine, il Berkshire e la sua natura, dove fa ritorno ogni volta che deve elaborare nuove idee. La sua famiglia è inoltre fonte d’ispirazione creativa, materia prima delle sue opere, nelle quali appaiono spesso i genitori, i parenti o materiali domestici come oggetti e fotografie di famiglia.

L’opera è formata da cinque fotografie montate in un’unica composizione. Il titolo prende in prestito il termine dalla psicanalisi che spiega l’attaccamento infantile a un oggetto usato come surrogato della figura genitoriale. Qui l’artista propone un’immagine in cui lui e il padre vestono gli stessi abiti, simili sono anche i tratti del viso; in grembo tiene la testa del genitore creando così una confusione identitaria che spinge l’osservatore a interrogarsi sulle finalità dei ruoli. Non esistono ruoli, modi o generi per avere cura di chi ne ha bisogno e non possono esserci interventi di cura automatici e anonimi.

Avere cura dell’altro presuppone un atto di responsabilità. Significa andare oltre ai luoghi comuni, ai valori stereotipati della compassione e dell’aiuto, significa abbracciare una visione nuova e pensare alla cura come completamento dell’essere umano, come crescita personale. La cura dell’altro come condizione umana.

 

Mattiacci Eliseo
Cultura mummificata, 1972

n. 134 calchi di libri in alluminio

collocazione:
Castello di Rivoli Museo d´Arte Contemporanea, Torino

proprietà:
Fondazione CRT

Cultura mummificata di Eliseo Mattiacci

Il disordine è solo apparente. I libri collocati a terra alcuni in bilico, altri appoggiati gli uni agli altri, si diramano e si distendono in modo regolare partendo da un nucleo centrale più alto. Volumi senza lettere, senza titolo, per lo più chiusi, serrati e immobili, abbandonati sul pavimento senza contenuti, né informazioni. Mummificati appunto. Ma non sono i libri i forzieri della cultura? Non sono loro i preziosi custodi della sapienza? Qui sono statici, pezzi di alluminio non consultabili, senza indizi di scrittura, privi della curiosa attrattività della conoscenza.

Esposta nel 1972, in una della più controverse Biennali di Venezia, Cultura Mummificata di Eliseo Mattiacci appartiene ad un gruppo di opere in cui l’artista analizza i codici culturali come base di partenza dell’apprendere. La funzione primaria dei libri relativa alla trasmissione del sapere e della memoria ha smesso di funzionare: è ferma in un assembramento che sa di abbandono, in cui evidente è la denuncia della precarietà della trasmissione della cultura. Perché? Quando la fruizione diventa unilaterale e non viene vissuta come esperienza comune, non può esserci educazione e apprendimento, poiché assente è il dialogo vitale della comunità che la riceve. Mattiacci, riuscendo a mantenere uno sguardo chiaro ed evocativo, costruisce un’immagine concettuale che riflette sulla cultura come convenzione, sul rischio di come questa possa generare, se non dialoga con la società, chiusura e staticità del sapere. Insegnamento e apprendimento devono essere animati e sostenuti da tutta la comunità, evitando così il rischio di produrre una cultura atrofizzata non più trasmissibile. La collettività, quindi, nella sua complessità e con i suoi bisogni; in assenza di essa, i libri saranno muti, senza parole, pezzi di alluminio sparsi per terra, inanimati e non più leggibili.

Bentivoglio Scarpa Natalino detto Cagnaccio
L’alzana, 1926

tecnica
olio su tela
cm 200 x 173

collocazione e proprietà
Fondazione di Venezia 

L’alzana di Cagnaccio

La luce è quella di un sogno. Nitida, quasi metallica e iperreale. Lo spazio è una banchina a ridosso del mare in una prospettiva innaturale. La scena è immobile, incantata, immersa in una magica sospensione, ma il lavoro di traino dei due giovani è tensione muscolare, è fatica al limite della sopportazione, non è illusione.

Lo strumento di lavoro è l’alzana, la fune che serve a trainare il barcone galleggiante, un lavoro più da animali da tiro che da uomini, un lavoro svolto solo da chi è al limite della miseria. Il verismo esasperato della resa attenta dei muscoli rigonfi, dei tendini tesi, delle vene affioranti si fonde in uno scenario metafisico di innaturale staticità.

Presentata nel 1926 alla XV Esposizione Internazionale d’Arte della città di Venezia, “L’Alzana” si qualifica come un punto cardine nel cammino artistico di Cagnaccio, che proprio nella sua produzione di questi anni affronta più volte soggetti di ispirazione sociale.

Cagnaccio di San Pietro nasce a Desenzano nel 1897.  Studia all’Accademia di Venezia con Ettore Tito, pittore accademico, ma presto si avvicina alle avanguardie, partecipando negli anni Dieci alle mostre di Ca’ Pesaro con Gino Rossi, Tullio Garbari e Felice Casorati.

L’esatta durezza del segno, il colore dalle gelide fluorescenze, il verismo dei tratti fisionomici affondano le loro radici nel linearismo del Quattrocento veneto; mentre la resa oggettiva della realtà che poi corrisponde a una realtà intima e morale, mostra affinità elettive con la corrente pittorica di quegli anni, il “Realismo magico”.

Con i due giovani Cagnaccio ci racconta di uno sforzo che diventa vano poiché il peso da portare è troppo grande, il barcone infatti rimane immobile. Il lavoro preso per disperazione si incastra nel giro delle fatiche e delle illusioni: l’artista sembra rimandare alla metafora della vita in cui l’affanno e la fatica non sono trasferibili, nonostante l’impegno si rischia di rimanere lì, fermi nell’inutile sforzo.

Ma sono giovani. Per loro c’è sempre un’altra strada da percorrere per progredire, per cambiare. I giovani riescono a sognare, a immaginare il cambiamento qualsiasi sia la loro condizione; riescono ad accettare le proprie debolezze, l’impegno non ripagato, gli sforzi vanificati. I giovani sono capaci di guardare avanti e ripartire.

Costa Giovanni Battista
Strada in pianura, 1890

tecnica
olio su tela
cm 76 x 102

collocazione
Palazzo Melzi d’Eril, Milano

proprietà
Fondazione Cariplo

 

Strada in pianura di Giovanni Battista Costa

I wandered lonely as a cloud. Il passo lento del viandante libra leggero sulla strada come una nuvola. Egli si muove in cammino contando solo sulle proprie forze. Cammina lungo i sentieri vagando in ogni dove. A guidarlo è il desiderio di conoscenza unito alla curiosità dell’incognito. Nella totale immersione nello spazio naturale che lo circonda c’è l’emozione del camminare, la contemplazione del paesaggio, il tempo che scandisce un altro ritmo, ma c’è anche la fiducia di trovare risposte nella bellezza della sua avventura solitaria.

L’esperienza del cammino ha valore in sé, è esso stesso esperienza di vita, una condizione tutta interiore dove si evidenzia assieme uno stato di sospensione (l’allontanamento dal quotidiano) e di conoscenza (la curiositas della scoperta), che diventa simbolo dell’esistenza umana. Il viandante è come un eroe. Per questo, l’osservatore ne rimane affascinato e si immedesima nella ricerca di quel percorso dentro e fuori di sé.

Pittore attivo in Liguria tra la f ine dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo, Giovanni Battista Costa, dal 1874 si forma alla Accademia Ligustica di Belle Arti a Genova, dove determinante è l’incontro con la ricerca di Plinio Nomellini e Pelizza da Volpedo. L’artista sente il bisogno di fissare il ricordo di un’emozione vissuta e trasmette sulla tela le atmosfere di un paesaggio studiato dal vero, dando corpo non solo alle cose, ma anche all’aria, alla luce, ai pieni e ai vuoti, in una nuova idea di pittura.

Il reale studiato attraverso l’emotività del pensiero. Le montagne violacee con le cime imperlate di neve sono sullo sfondo. Il viandante incede lento sul sentiero il cui inizio è oltre l’orizzonte, nel contrasto tra la campagna desolata serrata dai monti e dal cielo. In lontananza, appena visibile allo sguardo, si stagliano vibratili un casolare e un carretto che percorre la via al contrario: il passaggio del viandante non ha alterato il susseguirsi naturale del tempo e delle cose. Il vero viandante attraversa i luoghi sentendosi abitante di essi e, assieme al rispetto di ciò che incontra, vi è anche il desiderio di prendersene cura in un sentimento di appartenenza e di unione.

Giacomo Balla
Dimostrazione XX settembre, 1915

tecnica
olio su tela

collocazione
Palazzo delle Esposizione, Bologna

proprietà
Fondazione Carisbo

 

Dimostrazione di Balla

Il Futurismo è un movimento letterario e artistico che sfida il passato, lo sovverte e sceglie nuove strade nel solco del progresso e della modernizzazione. Esso nasce in un’epoca di transizione. Le scoperte tecnologiche e di comunicazione, come il telegrafo senza fili, la radio, gli aeroplani e le prime cineprese, sono innovazioni che cambiano completamente la percezione delle distanze, dello spazio e del tempo. Partendo dal disprezzo della società ottocentesca, borghese e artificiale, il Futurismo cavalca lo sviluppo tecnologico del primo decennio del Novecento e pone l’uomo a contatto diretto con il mondo in cui vive. “Noi vi dichiariamo che il trionfante progresso delle scienze ha determinato nell’umanità mutamenti tanto profondi, da scavare un abisso fra i docili schiavi del passato e noi liberi, noi sicuri della radiosa magnificenza del futuro…” (Manifesto dei pittori futuristi, 1910).

Dimostrazione XX settembre del 1915 fa parte dei cosiddetti dipinti “interventisti”, che Giacomo Balla realizza in quegli anni in cui si era a favore dell’entrata in guerra dell’Italia. La manifestazione prende corpo attraverso il dinamismo delle pennellate, larghe campiture di colore acceso a formare vortici luminosi. La ricerca è linguistica: segni significanti velocità, dinamismo, cromie e luce, dove il colore evidenzia le spinte propulsive delle forme. Non si punta alla raffigurazione di qualcosa, quanto all’interpretazione di ciò che si vuole rappresentare. Le pennellate scomponendo e frammentando l’immagine restituiscono la sensazione della dinamicità di una massa in movimento. È l’immagine mentale del moto. Rappresentare sulla tela il movimento stesso, nel suo svolgersi nello spazio e nel suo impatto emozionale, significa sovvertire l’approccio visivo tradizionale. Il coraggio di accogliere le innovazioni tecnologiche e rivoluzionare i linguaggi è nella valenza teorica del futurismo. Nella storia dell’umanità, alle transizioni tecnologiche e scientifiche sono, spesso, seguite grandi evoluzioni nell’arte e nella cultura, con vere e proprie rivoluzioni delle tecniche e dei linguaggi, contribuendo al progresso dell’intera umanità. Il futuro è di tutti.

Carmassi Enrico
La folla. Città, ante 1971

tecnica
tecnica mista su carta

collocazione
Sede centrale Cassa di Risparmio della Spezia

proprietà
Cassa di Risparmio della Spezia S.p.A

 

 

La folla di Carmassi

Il bozzetto “La Folla” di Enrico Carmassi è preparatorio all’opera Città compressa, una scultura in terracotta composta da otto blocchi assemblati, in cui la rappresentazione del centro urbano recupera un tema caro al futurismo e segue una parte del rinnovamento artistico che, a partire dal secondo dopoguerra, si dedica alla tecnica dell’assemblaggio sperimentando le potenzialità di nuovi materiali.

Il titolo sembrerebbe ispirarsi al “Marcovaldo” di Italo Calvino: “Ma in questa città verticale, in questa città compressa dove tutti i vuoti tendono a riempirsi e ogni blocco di cemento a compenetrarsi con altri blocchi di cemento, si apre una specie di controcittà…”. Ecco, la controcittà. Nel bozzetto di Carmassi il reticolato che si svolge su l’intera superficie non contiene, non ingabbia e né opprime. Esso sembra piuttosto organizzare la folla, distribuirla nei vari spazi, collocandola in file sovrapposte fino a riempire i vuoti. La città è fatta perlopiù di persone che, seppure si ripetono iconicamente in una bidimensionalità da mosaico bizantino, si uniscono e mischiano fra di loro, sostituendosi ai blocchi di cemento, ai muri, alle costruzioni.

Persone che riducono le distanze e gli spazi, fino a sovrapporsi come in un abbraccio monumentale. Persone che a volte si tengono per mano, mentre in altre si assemblano in gruppi per parlare, per scambiarsi opinioni, per discutere e condividere idee. Ci piace pensare che la “controcittà” cui si è ispirato l’artista non sia altro che una città composta da cittadini propensi a collaborare per il bene comune, coinvolti dalla stessa urgenza, dallo stesso senso di appartenenza alla comunità in cui vivono, consapevoli di poter plasmare e influenzare la società attraverso la partecipazione, e in cui prevalgano sullo stesso piano i diritti e le responsabilità. Un luogo di convergenza tra etica e politica, tra essere uomo buono e buon cittadino.

Aurelio Amendola
Alberto Burri, Morra, La combustione, 1976

Tecnica
stampa da diapositiva

Collocazione
Castello di Rivoli Museo d´Arte Contemporanea, Torino

Proprietà
Fondazione CRT

Il gesto di Burri

Come si misura il talento di un artista? Forse dalla potenza di un’opera d’arte, dalla capacità che essa ha di comunicare e dalla sapienza del suo racconto. In un’opera il soggetto, la tecnica e la poetica non sono mai separabili e ognuno è funzionale all’altro. La forma diventa contenuto.

Dopo la seconda guerra mondiale, il vuoto che assale l’uomo moderno e la convinzione della sua solitudine di fronte alla morte influiscono radicalmente sul linguaggio dell’arte. Cambiano gli strumenti e i modi: l’artista sviluppa attraverso il segno o il gesto un nuovo rapporto con l’opera d’arte, sperimentando materiali originali spesso ripresi dalla quotidianità. L’opera è un’entità dotata di una vita organica propria, da vivere a sua volta nel profondo.

Per Alberto Burri (1915-1995) esistere coincide con il fare artistico e viceversa: nei Sacchi, nelle Plastiche e nelle Combustioni, il gesto fa parte dell’opera e la rende viva; il gesto evidenzia il carattere sacro e assoluto dell’oggetto e ne esalta il suo potenziale comunicativo. Dopo la guerra mutano i codici espressivi. Utilizzando il fuoco, attraverso la combustione, l’artista attiva un’arte al di fuori delle nozioni tradizionali di forma, spazio e estetica. La fiamma crea forti chiaroscuri, va dal nero intenso dove la materia è stata maggiormente bruciata, al chiarore del vuoto lasciato dalla fiamma; sulla pellicola trasparente, essa imprime buchi, grinze e strappi, sono lacerazioni violente, profonde e potenti come lesioni. Sono le ferite dei soldati che riaffiorano dai ricordi della sua prigionia nel campo di concentramento in Texas. Burri ha riguardo per quelle ferite e sviluppa un’azione riparatrice e cura, al fine di raggiungere una nuova bellezza della forma. Ecco, nel gesto dell’artista sta il suo talento.

 

Nomellini Plinio
Piazza Caricamento a Genova, 1891

olio su tela
cm 120 x 160

collocazione:
Palazzetto medievale Fondazione CR di Tortona

proprietà:
Fondazione CR di Tortona

 

Piazza Caricamento a Genova

Sono le prime ore del mattino, e la grande piazza del porto di Genova è già in fermento. L’atmosfera è quella della febbrile attività e del continuo movimento dei lavori portuali. Al centro dell’immagine si stagliano decise le figure di un “camallo” dal tipico copricapo, con una fune stretta nella mano, e un carrettiere riconoscibile dal caratteristico abbigliamento della giacca di fustagno, pantaloni negli stivaloni e fazzoletto al collo. A bilanciare la composizione, di poco arretrati, sono a sinistra le immagini di uno spazzino e di un uomo con la cesta, intenti nel loro lavoro e, dall’altro, in un sottile linguaggio di equilibri e opposizioni, due borghesi mentre leggono il giornale.

Quando, nel 1890, Plinio Nomellini si trasferisce a Genova è già formato alla nuova maniera divisionista ed è molto interessato ai soggetti socialmente impegnati. Da attento osservatore della realtà urbana è subito attratto dalle sinergie frenetiche delle “sue rive e del suo porto” della città ligure, di cui ne sono testimonianza i suoi taccuini ricchi di studi di operai, scaricatori e marinai.

I due giovani dal fisico solido e portentoso incedono nella scena con passo sicuro e consapevole, mostrando la fierezza di chi il lavoro lo conosce bene, perché lo ha sperimentato sulle proprie spalle e nelle proprie mani. Tra loro si avverte una tacita intesa. Tutto attorno nella piazza è vitale attività, in un continuo lavorio di scambi, di trasporto, di caricamento e scarico di merci, movimento di carri, muli e carrettieri, ritratti con pennellate di colore piccole, divise e veloci, frutto di una materia cromatica luminosa e avvolgente.

La piazza diventa così il luogo dove le persone possono scambiarsi conoscenze, ruoli, esperienze e dove possono sperimentare nuove soluzioni e favorire nuovi intrecci e trasformazioni. Il lavoro diventa condivisione, scambio e collaborazione. È la consapevolezza di poter contribuire allo sviluppo e al progresso della comunità

Licini Osvaldo
Amalassunta, ca. 1940 – ca. 1950

olio su tela
cm 19 x 20

collocazione:
Museo Palazzo Ricci, Macerata

proprietà:
Fondazione Carima

Amalassunta

Sembra fluttuare nel fondo di un cielo rosso acceso, pochi tratti ocra appena accennati, un volto appeso a un esile tronco smembrato i cui seni giacciono separati su un piano nero. (more…)

Michelangelo Pistoletto
La Venere degli stracci, 1967

cemento ricoperto di mica, stracci
cm 150 x 280 x 100

collocazione:
Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea

proprietà:
Fondazione CRT

La Venere degli stracci

Venere, armonia della bellezza. Considerata da sempre l’ideale della grazia e della bellezza femminile, Venere è anche la dea simbolo della forza dell’eros, capace di infondere il desiderio in ogni creatura e di catturare, incantandolo, l’osservatore. Ma qui la dea non si mostra. Anzi, volta le spalle e nega la sua bellezza; si nasconde allo sguardo e sceglie di immergersi nel cumulo di stracci e di abiti addossati alla parete.

Protagonista dell’Arte Povera, orientamento artistico degli anni ’60 che inneggia alla libertà, alla creazione svincolata da ogni imposizione in cui non è importante la forma ma il contenuto, Michelangelo Pistoletto irrompe nel panorama dell’arte italiana con La Venere degli stracci, una delle sue più note e irriverenti installazioni.

L’arte di Pistoletto è caratterizzata da una sperimentazione incessante che supera tecnica e stile a favore di un intervento che punta all’integrazione dell’osservatore con lo spazio, con il tempo e con la realtà dell’opera: gli oggetti presenti, infatti, non assurgono al ruolo di sculture – come dice lui stesso “non rappresentano, sono”- ma diventano protagonisti di un evento dal sapore teatrale in cui fondamentale è il coinvolgimento dello spettatore.

La pedissequa riproduzione della Venere con mela dell’artista neoclassico Bertel Thorvaldsen del 1805, esalta il confronto stridente tra la rappresentazione classica e ordinata di bellezza e il mucchio disordinato di oggetti non di valore, stracci e abiti appunto, con la chiara volontà di avvicinare la tradizione classica dell’arte al contesto sociale contemporaneo. L’utilizzo di materiali poveri non canonici, ripresi dagli utensili di uso quotidiano indica il disinteresse a realizzare opere tradizionali in favore di un’attività artistica che sia al servizio di un linguaggio comune, comprensibile a tutti. Ogni straccio e abito rimanda a una persona, al vissuto di qualcuno, alla concretezza della realtà in una correlazione tra quotidiano e apparenza che coinvolge nel medesimo istante ambiente e pubblico.

D’altra parte è nella natura primaria di un’istallazione fare dello spettatore il principale fruitore: l’autenticità degli oggetti e dei materiali utilizzati, infatti, ne esaltano il dialogo immaginario. Venere perde la autorevole frontalità e il prestigio della fattura (è un calco di statua in cemento simile a quelle di arredo dei giardini) e invita l’osservatore a concentrarsi sullo stridente connubio, fra l’ordine e il caos, tra il bianco e il colorato, tra la classicità e la modernità. Così, la bellezza ideale si contrappone alla concretezza del quotidiano in un percorso che vede lo straccio rinascere con la Venere, per essere forma e colore fino a farsi opera. La “povertà del quotidiano”, dunque, diventa arte, un’esperienza artistica a disposizione di tutti. Non è forse questa la vera bellezza?

Varotari Alessandro Detto Padovanino
Europa e il toro, 1638 – 1640

olio su tela
cm 96 x 130

collocazione:
Palazzo Confalonieri – Centro Congressi Cariplo, Milano

proprietà:
Fondazione Cariplo

Europa e il Toro di Alessandro Varotari

Europa in principio era un mito. Il mito narra di una delle più celebri vicende amorose di Giove. Il re degli dei, invaghitosi della bella e giovane Europa, figlia del re di Tiro (Fenice o Agenore), si trasforma in un toro e, ingannando la fanciulla, la fa salire sul suo dorso per rapirla e portarla fino a Creta, dove, abbandonato l’aspetto animale, la seduce; dalla loro unione nascono tre figli, tra cui Minosse, il leggendario re dell’isola.

È Ovidio a raccontarci di Europa (Metamorfosi, libro II, vv. 835-875): Giove vista la giovane e prosperosa fanciulla, prese le sembianze del bellissimo e giovane toro, la raggiunge e si sdraia accanto a lei. Europa non ha paura e, anzi, lo adorna e gli cinge il capo di una corona di fiori e di un drappo celeste. “Nessuna minaccia in fronte, lo sguardo non fa paura, il muso è in pace. Lo contempla la figlia di Agenore, come è bello, e non minaccia battaglie; ma, per quanto mite, ha paura a toccarlo dapprima, poi gli si accosta e porge fiori davanti al candido muso”. In disparte rimangono le compagne che forse intimorite provano titubanti a offrire una corona di fiori. A sancire che si tratti di una scena amorosa è Cupido che munito di faretra e frecce anticipa l’epilogo della vicenda.

Dal mito poi sembra derivare l’assegnazione del continente. “Una parte del mondo/porterà il tuo nome” (Orazio, Odi III 27, vv. 75-76).Il nostro continente quindi avrebbe preso il nome da quella fanciulla, anche se tale opinione diffusa fra gli antichi, non riscontra pareri unanimi.

L’autore del dipinto che illustra l’incontro tra Europa e il toro è Alessandro Varotari, detto il Padovanino, che sceglie di rappresentare la parte del mito antecedente al Ratto. Il pittore interpreta in maniera personale il classicismo dei modelli veneti del Cinquecento: le figure femminili nitide e prosperose sono descritte da un cromatismo vivace e intenso, con particolare cura dei monili e del panneggio; esse occupano prepotentemente la scena in un’atmosfera quasi sospesa, priva di sentimenti e drammaticità.

Carli Tullio
Città futurista, 1939

olio su tela
cm 44 x 63

collocazione:
Palazzo Cassa di Risparmio, Trieste

proprietà:
Fondazione CR di Trieste

Città Futurista

Tullio Crali racconta di essersi avvicinato al futurismo all’età di quindici anni quando vendeva i testi scolastici per comperare i libri di Marinetti, di Boccioni e i Manifesti del Futurismo. Nel 1928 dopo essersi trasferito con la famiglia a Gorizia, frequentò il campo di aviazione e rimase affascinato dalla traversata dell’Atlantico di Charles Augustus Lindbergh. Fu allora che la passione per il volo entrò nella sua pittura e la determinò strutturalmente. Il giovane Crali scelse così di abbandonare definitivamente i retaggi surrealisti e si dedicò all’aeropittura, affascinato e consapevole del cambiamento avvenuto nella mostra di aeropittura a cura dei futuristi che si tenne nel febbraio 1931 a Roma. Ed è sulla scorta dei suoi studi sui temi futuristi e sui disegni dell’architetto visionario Antonio Sant’Elia che Crali elaborò un suo personale linguaggio architettonico futurista: la città come luogo privilegiato della velocità, del movimento, la forza prorompente della modernità; forme stilizzate di edifici simili all’edilizia industriale. “Noi dobbiamo inventare e rifabbricare la città futurista simile a un immenso cantiere tumultuante, agile, mobile, dinamico in ogni sua parte, e la casa futurista simile a una macchina gigantesca” (Manifesto di Sant’Elia 1914).

Nelle opere di Crali le città futuriste assumono contorni visionari e verticali e risultano collegate dalle comunicazioni aeree dei veicoli aerodinamici, dal dominio tecnologico dell’uomo su cielo, terra e mare, e l’edificio si fa città e infrastruttura, fabbrica e centrale energetica. La città di Crali si svolge davanti ai nostri occhi come se la stessimo osservando in una quinta teatrale: curve e rette si alternano agli archi che nei diversi piani e nelle differenti profondità ci portano ad alzare lo sguardo e a notare l’areostato che sorvola tra le cime dei palazzi sullo sfondo di cieli e di luci. L’opera condensa tutta la teoria futurista di città, dai treni sbuffanti ad aerei che sorvegliano le metropoli, alle incurvature anti-vento (ideate in alcuni disegni dallo stesso Crali) e ai grattacieli avveniristici. È la città ultramoderna, visionaria e titanica, con i rimandi all’architettura di Sant’Elia e con uno sguardo ai paesaggi cubisti di Delaunay.

L’opera di Crali è priva di presenza umana, pullula di rumori, di edifici svettanti e di macchine roboanti, ma non ci sono le persone. Ma se le città sono tali perché rappresentano l’identità di chi li abita, ci piace credere che la città futurista di Crali, in assenza di umanità,  sia in verità  il progetto per una città ideale, senza incoerenze sociali, né divisioni strutturali: una città finalmente inclusiva e vivibile da tutti, una città in attesa di essere popolata da una sana comunità.

Gianni Berengo Gardin
Trento, campo nomadi, 1984

stampa ai sali d’argento b/n
cm 25×37

collocazione:
Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea

proprietà:
Fondazione CRT

 

Trento, campo nomadi

Il mio lavoro non è assolutamente artistico e non ci tengo a passare per un artista. L’impegno stesso del fotografo non dovrebbe essere artistico, ma sociale e civile”. Gianni Berengo Gardin di origini veneziane, ma milanese di adozione, definisce così il ruolo del fotografo. A conferma delle sue parole sono il suo lavoro e la scelta di essere innanzitutto osservatore puntuale della realtà, della sua fisionomia e delle sue trasformazioni. La sua macchina fotografica scruta infatti il mondo degli emarginati, dei lavoratori, degli zingari, del sud d’Italia, dei malati di mente e la condizione della donna. Inizia la sua carriera di fotografo nel 1954, scegliendo di lavorare da allora esclusivamente con la pellicola, e sempre in bianco e nero. Sui nomadi ha realizzato diversi reportage vivendo anche per diversi giorni nei campi, credendo con passione nella fotografia come documento e come testimone di realtà sociali.

Nella foto, lo specchio appoggiato alla rete divisoria riflette l’immagine per intero del violinista e ci conduce nel resto del campo nomade con altre baracche e con i suoi occupanti. È un campo chiuso, delimitato, e anche il profilo dei monti all’orizzonte ne sottolinea il confine. Lo zingaro violinista di profilo in primo piano sembra avere una personalità a sé rispetto alla sua stessa immagine riflessa: più cupo è lo sguardo, concentrato nella malinconia della sua musica, chiuso nel suo essere; la proiezione del suo riflesso nello specchio sembra invece affermare la consapevolezza e l’orgoglio della sua condizione; egli sembra volere, almeno con la musica, oltrepassare il campo e essere considerato semplicemente per quello che è, un uomo. Una ragazza appoggiata alla rete con gli occhi in tralice si abbandona alle note e ai suoi pensieri. Poco oltre due bambini seduti sembrano attendere il loro turno per potersi esibire e provare anche loro a “fuggire” nello specchio. La maestria del gioco a contrasto dei bianchi e dei neri esalta l’armonia compositiva e il significato dell’immagine e ci restituisce, sulle note del violino zigano, quella “disperata allegria” evocata più volte da Berengo Gardin nei suoi reportage sui campi nomadi.